Cardinale Silvano Piovanelli

Silvano Piovanelli è tornato al Signore

Per ricordare la sua straordinaria persona, pubblichiamo l’intervista che Sua Eminenza rilasciò al nostro giornalino parrocchiale “In Cammino” in occasione del 50° della nostra Parrocchia.

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Riportiamo qui la trascrizione del dialogo/intervista intrattenuto con il Card. Piovanelli il 30 marzo 2016. In occasione del 50° della parrocchia e del 25° dalla scomparsa di don Marinetto abbiamo ascoltato la voce di un Pastore della Chiesa Fiorentina che ne è parte dal 1947 e che è stato Arcivescovo di Firenze dal 1983 al 1999.

Iniziamo dai tempi della formazione. Lei è nato nel 1924, don Marinetto era nato due anni prima di lei del 1922. Lei è stato ordinato nel 1947 e don Marinetto l’anno precedente, nel 1946.Avete quindi passato molto tempo assieme nei tempi del Seminario, cosa si ricorda di don Rodolfo?

Posso dire che mi ha fatto sempre molta impressione la serietà con cui lui studiava teologia e partecipava alla vita del Seminario. Questo lo ricordo perfettamente. Per me era un esempio, tant’è vero che ricordo bene che una volta gli dissi “ti chiedo perdono se non sono riuscito sempre a seguirti per l’esempio che tu mi dai”, me lo ricordo proprio bene. Era davvero un modello.

Tra il 1945 e il 1950 sono stati ordinato molti sacerdoti i cui nomi sono rimasti legati alla storia della Chiesa Fiorentina anche relativamente a vicende che ebbero respiro nazionale. Ad un esame anche solo molto sommario tra gli ordinati di quegli anni riconosciamo almeno 15 nomi di preti hanno lasciato gande segno nelle nostre comunità. Ci sembra una concentrazione troppo elevata per essere semplicemente un “caso”. Lei ritiene che ci sia un qualche elemento particolare che possa giustificare questa constatazione?

Può darsi. Anche se si fa sempre male a dare un giudizio su queste cose. Ma può darsi che abbiano influito molto i tempi tragici che noi abbiamo vissuto. Perché quando ero in seminario, al momento che ho iniziato la teologia, scoppiava la guerra.

Mi ricordo che dopo il primo bombardamento di Firenze, quello delle Cascine, decisero di mandarci via. Il seminario era a 500 metri (in linea d’aria dal luogo del bombardamento – ndr).

Mi ricordo ancora il fumo del bombardamento. Dopo il bombardamento andammo a vedere e ricordo il fumo denso… può darsi perciò che abbia anche influito: la tragicità del tempo.

Erano tempi in cui non si poteva scherzare. Le scelte tu le pagavi.

Quindi non oso usare la parola “tempi eroici”, purtuttavia bisogna riconoscere che erano tempi anche duri. Erano tempi in cui le scelte erano radicali.

Vedo la lista dei nomi che mi avete portato… (alcuni nomi sono di preti che per le vicende accadute hanno lasciato il ministrero – ndr). Tra questi c’è anche don G. è ancora vivo. (è uno di quello che ha lasciato il ministero – ndr).

Lui mi ha scritto anche ora per Pasqua…. Mi ha scritto… Si sa un po’ di polemica c’è… in fondo, ma lui mi ha scritto “ma perché, ma perché?”.

Io gli ho risposto dicendogli “grazie di avermi scritto” anche perché non si finisce mai di riconoscere che potevamo fare di più… e che perciò in ogni circostanza abbiamo la responsabilità.

Lei si trova nella particolare situazione di essere stato parte dello stesso presbiterio di don Marinetto, prima come presbitero poi come Vescovo. Per il momento limitiamoci al periodo in cui eravate entrambi presbiteri, parroci. Ha ricordi particolari dell’opera di don Rodolfo? Don Rodolfo fu nominato parroco nel 1965 dal Card. Florit provenendo dalla molto più piccola e totalmente diversa parrocchia di Moulin del Piano. Ricorda qualcosa della nomina?

Me la ricordo perché eravamo in qualche modo legati a Molin del Piano da un’amicizia comune. Ne ho avuto molta stima e l’impegno che lui ha messo è stato un impegno serio per me esemplare, bravo.

Non ricordo cose particolari, però ricordo la voglia di far partecipare gli altri. La promozione del Laicato, il far partecipare (alla pastorale in maniera attiva – ndr).

Procediamo velocemente fino al 1991, il 7 luglio muore improvvisamente don Marinetto a seguito di un incidente stradale. Cosa ricorda di quelle ore? Ha qualche ricordo particolare delle Esequie?

Ci lasciò senza parole, proprio. Una cosa… mamma mia!. Non ci si aspettava nessuno, Lui era andato al mare come faceva tutti gli anni e lì appunto ha avuto quest’incidente.

Ricordo quanto profondamente fu colpita la sua parrocchia ed anche il presbiterio. Infatti, partecipammo in tanti (preti ndr) a questa celebrazione, in preghiera. È anche un caso singolare, difficile che capiti, che un sacerdote muoia in un incidente… Per me è stato l’unico caso nel mio periodo da Arcivescovo di un sacerdote morto in un incidente. Si rimase davvero tutti male davvero… e poi si sa di fronte alle cose irrimediabili che bisogna accettare perché c’è poco da fare.

Nel 1983 lei è stato promosso ad Arcivescovo di Firenze. I rapporti con don Rodolfo sono quindi cambiati, se non altro nella nuova responsabilità che le è stata affidata. Da Vescovo, cosa ricorda di don Rodolfo?

Sicuramente avrà avuto da confrontarsi con lui per la scelta di alcune impostazioni pastorali della parrocchia e per l’indicazione dei collaboratori che gli ha affidato. Cosa ci può dire in proposito?

L’ho trovato sempre molto disponibile. Da Arcivescovo io non ho cambiato il mio rapporto con i preti. Siamo rimasti sempre in rapporto fraterno.

L’ho sentito molto quell’incidente l’unico che mi è capitato nella mia vita, un prete che muore per un incidente, mamma mia!

Tanto più che la parrocchia di Maria Ausiliatrice era particolare per la partecipazione della gente, la valorizzazione del Laicato. L’intervento dei laici anche nel Consiglio Pastorale che era una cosa un po’ particolare. A quei tempi non erano tante le parrocchie che avevano quest’apertura.

C’erano, non c’era solo lui (don Marinetto, che promuoveva il laicato – ndr), ma la sua azione era davvero esemplare da questo punto di vista.

Il parroco che apre l’attività pastorale di una nuova comunità assume giocoforza un po’ l’aspetto del “fondatore”. Fu difficile l’identificazione del successore di don Marinetto?

Io mi son fidato molto di Gianluca… mi son fidato. Cioè a dire: ho avuto fiducia, più che fidato. E non sono stato deluso.

In 50 anni la nostra comunità ha avuto solo due parroci. Dal 1965 al 1991 don Marinetto (26 anni). Dal 1991 al 2014 don Bitossi (23 anni). Periodi non certo brevi. Secondo lei questo è un dato positivo? O si dovrebbero trovare forme per un avvicendamento meno “epocale” alla guida delle parrocchie?

Penso che non è tanto la misura del tempo in cui un parroco sta in una parrocchia, quanto il modo con cui ci sta. Per cui ci può stare venti anni e rispettare veramente la crescita della parrocchia, favorirla. Mentre ci può stare anche solo dieci anni e, non dico farla morire, ma insomma in un certo senso farla stentare un pochino. Quindi, dipende da come ci si mette nella parrocchia.

Si, anche io ritengo che periodi troppo lunghi, forse, tolgono a quel parroco, che ha fatto bene, l’occasione di fare ancora bene da un’altra parte. E allora qualche cambiamento può essere utile per questo.

Io sono però nettamente contrario ai “nove anni e poi si cambia” (è una modalità per l’avvicendamento dei parroci applicata in alcune diocesi italiane, specie nel nord – ndr).

Nettamente contrario, perché questo mi dà l’idea di un servizio come quello dei Prefetti nelle Regioni, lo sanno precisamente, il mandato è quello lì, e basta!

A me pare che, per quanto riguarda la presenza nella parrocchia, il sacerdote ci deve stare ma con una certa libertà, ci vuole un periodo abbastanza lungo perché deve conoscere le persone, le persone devono conoscere lui.

Però eccessivamente lungo no!

Da quindici a vent’anni in fondo va bene.

Nella mia esperienza ho fatto tutti i periodi così, perché per dodici anni sono stato in seminario da vice Rettore, dopo il seminario per diciannove anni sono stato Parroco e poi diciotto anni Arcivescovo di Firenze. Ora poi sono già quindici che sono in pensione… quindi tutti periodi piuttosto pieni.

Infine una ultima domanda sul futuro…  Le facciamo questa intervista per inserirla nel numero unico del giornalino parrocchiale che celebra il 50° della fondazione della parrocchia. Cosa ci suggerisce per il futuro? Dove concentrare le nostre forse? Quali le scommesse su cui puntare le forze della nostra pastorale per i prossimi anni?

Io credo che dobbiamo spendere tutte le energie che abbiamo, e magari anche qualcuna in più, perché il Vangelo diventi il punto di riferimento della famiglia, dei gruppi.

Il Vangelo, letto insieme, non la Catechesi in chiesa, ma il Vangelo letto nella famiglia o nel gruppo con una fedeltà continua.

Di lì vien fuori tutto. Se uno ha il coraggio di tentare con le famiglie giovani, i giovani, qualche gruppo in qua e là, la lettura del Vangelo. Confrontarsi con la Parola di Dio in continuazione.

Su questo io almeno ho ricevuto una spinta forte dall’esperienza dell’America Latina dove ho conosciuto questa esperienza.

Io facevo tutti gli anni un viaggio missionario, dove c’era una presenza “fiorentina”, un prete, una suora, un laico e quindi ho avuto modo di conoscere che la strada è quella.

Oso dirlo anche per il futuro! Se uno lavora su quello, non perde tempo, è sicuro!

E in più, stabilisce dei movimenti attorno alla Parola di Dio che poi rimangono.

Qualche volta, giustamente anche, si fanno delle Catechesi ed è giusto. Però la Catechesi più bella è sempre quella attorno alla Parola di Dio.

Se uno riuscisse ad organizzare la vita della propria comunità suscitando tanti piccoli gruppi attorno alla parola di Dio! Piccoli gruppi di 6 – 8 (persone ndr) bastano, perché bisogna poter comunicare.

Il parroco deve stare attento agli animatori. Gli animatori ci vogliono. Vanno formati.

Non può essere soltanto il prete (a fare la Catechesi – ndr), anche se siete due (preti in parrocchia – ndr).

Ci vogliono dei laici che facciano questo lavoro, assistiti, accompagnati.

Questa è la strada più larga sa seguire per la promozione del Vangelo.

La fatica, il sudore anche la sofferenza che uno può incontrare su questa strada, è tutto ben ripagato!

Un’ultima domanda. Quando ha lasciato la Diocesi Lei usò un’espressione latina che vuol dire “padre una volta, padre per sempre” (Semel Abbas, semper Abbas). Lei quassù è sul monte e vede la città, vede tutti noi. Cosa Le verrebbe da dire oggi qui, in questo momento particolare della storia?

Se dovessi spendere delle parole, le spenderei per quello che le ho detto adesso. Durare fatica ad animare dei gruppi nelle Parrocchie. Questi gruppi non presieduti da preti, ma da laici ed i preti che curano gli animatori dei gruppi. Questo per me è l’ideale. Non so se il nostro futuro sarà su questa linea qui. Ma so che questa linea è autentica. C’è tutto, c’è la Parola di Dio, la valorizzazione dei Laici, la responsabilità del Prete. C’è tutto!!!

Un messaggio ai nostri giovani e agli Educatori dei giovani della nostra Parrocchia, che erano giovani quando Lei era Arcivescovo e ricordo l’accoglienza che le davano quando veniva nelle Parrocchie. Cosa direbbe loro?

Bisogna farli lavorare alla luce del Vangelo nella carità, nella carità concreta.

Oggi c’è tanto bisogno… I giovani questo lo sentono.

Non so se voi avete qualche iniziativa, ma credo che quello che si spende in fatica, in attenzione è ben speso.

E quello che conta è quello che vi ho detto prima (i gruppi del Vangelo ndr).

Tanto più che poi anche per i giovani e i preti giovani questo è stimolante. Non si tratta allora di continuare a fare (solo – ndr) le cose che si fanno sempre.

Le cose quotidiane vanno fatte, certo! Le confessioni, i malati i Sacramenti, quelli si fanno sempre, vorrei vedere!

Però tutto questo, in questo impegno continuo del Vangelo.

Allora queste cose diventano belle, valide.

Anche se la cosa non è andata avanti molto, però mi ricordo che, con l’idea dei Gruppi (ai tempi del Sinodo – ndr), si fece anche un gruppo di malati. Per cui un gruppettino di malati si ritrovavano tute le settimane, stavano insieme. Pensa un po’ cosa vuol dire!

 

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