Acqua

Dar da bere agli assetati

Prosegue il cammino di approfondimento sul tema della Misericordia oggetto dell’Anno Santo proclamato da papa Francesco.

Mangiare e bere sono necessità primarie intrinsecamente connesse. Forse però a prevalere tra le due è proprio il bere. Veniamo dall’acqua. È lì che ha avuto inizio la vita e ciascuno di noi per la sua parte ha vissuto il rapporto originario con l’acqua nel grembo materno. Uscirne fuori ha significato respirare altrimenti, ma non rinunciarvi. Bere è stata necessità obbligata, tutt’uno con la possibilità di nutrirsi e perciò di crescere, vivere.

La connessione biblica tra acqua e vita ci è ben nota: basti pensare alle acque primordiali. Nella storia di un popolo nomade qual è Israele la lotta per la sopravvivenza è nel segno dell’acqua: delle oasi disseminate nei deserti presso cui trovare ristoro per sé e per gli animali; dei pozzi scavati in profondità, divenuti poi tappa obbligata in quella mappatura itinerante che di continuo muove esseri umani e animali. La privazione dell’acqua, il sospetto d’esserne definitivamente privati e con ciò d’essere perduti, è quanto registra la rivolta di Massa e Meriba (Es 17); e ciò malgrado la risposta benefica di Dio fa scaturire dalla roccia questo tesoro prezioso, condizione stessa della vita. L’aspettativa è di un’acqua inesauribile, di un’acqua finalmente e per sempre dissetante. L’acqua diventa così metafora d’altro, di un futuro perfetto verso il cui compimento si cammina… In questa chiave si intendono le acque miracolose e guaritrici; le acque che lavano e purificano l’essere umano, la sua carne, il suo spirito, la sua responsabile inclinazione alla colpa; le acque che disegnano modalità nuove, definitive e radicate nella compassione di Dio per la creatura.

LogoGiubileoMisericordiaIl racconto della creazione, le storie dei patriarchi, il peregrinare d’Israele nel deserto, la preghiera dei Salmi, sino ad arrivare ai Vangeli: tutto modula l’acqua nella sua consistenza concreta (ivi compresa la sua ambivalenza, come nel caso del diluvio) e ne fa matefora di una possibilità altra, risanante, redentiva, purificatrice, vitale comunque. In questo quadro originario – acqua, fuoco, aria, terra in diverse culture scandiscono gli elementi primordiali – si collocano certamente le parole di Gesù, l’invito che egli rivolge ad attingere all’acqua di vita che egli stesso è. Si pensi al suo discorrere con la donna di Samaria (Gv 4,13-14), al grido (Gv 7,38) sui fiumi d’acqua viva che sarebbero sgorgati dal suo seno, o ancora all’acqua (e sangue) scaturita dal suo fianco (Gv 19,34), sino all’acqua della vita definitivamente elargita a chi ha sete (cfr. Ap 21,6; Ap 22, 1.17). In Mt 5,6 la beatitudine tocca chi ha fame e sete di giustizia – l’opera di Misericordia è dovuta, è “opera di giustizia”.

E nella prospettiva contemporanea, nell’emergenza geopolitica dell’acqua, sete e giustizia davvero sono un tutt’uno. Guardiamo un po’ alla situazione mondiale.

L’acqua ricopre il 71% della superficie del globo e, di questa, il 98% è costituita da oceani e da mari. Inutile sottolineare come la concentrazione salina di questi ultimi li renda difficilmente fruibili. Ci restano allora le acque dolci. Ma anche per queste, che costituiscono il 2% del totale, la maggior parte è inutilizzabile, vuoi per la profondità delle falde, vuoi per la condizione solida (ghiacciai). Restano i fiumi, i laghi, le falde acquifere più superficiali. L’acqua fruibile è dunque poca.

Oggi – si calcola – più di un miliardo di persone non possono accedere all’acqua potabile, che, in aggiunta, è concentrata in poche aree geografiche. I mutamenti climatici da una parte, i fattori politici e sociali dall’altra, rendono sempre più complesso e difficile l’uso di una risorsa che, sempre più spesso, diventa ragione di conflitti. Lo si capisce meglio se poniamo attenzione ai suoi luoghi di concentrazione: Siberia, i grandi laghi del Nord America, quelli dell’Africa centrale. Ad essi vanno aggiunte le cinque grandi reti fluviali (Rio delle Amazzoni, Gange-Brahmaputra, Congo, Yangtze, Orinoco).

Le immagini relative alla desertificazione di larghe aree del mondo, come quelle relative alle guerre in atto, ci mettono davanti all’intreccio interdipendente di crisi ambientale e crisi politica. Si pensi agli squilibri nel circolo del ricambio idrogeologico, ad esempio. La deforestazione, lo sfruttamento intensivo del suolo, l’uso di pesticidi, gli allevamenti intensivi, la produzione di scorie e rifiuti incrinano il ciclo della pioggia sia nella quantità che nella qualità. Nei paesi in via di sviluppo il 90% dell’acqua di scarico viene direttamente riversata nei fiumi, il che provoca ogni anno 250 milioni di malati. Né meno inquietanti sono i movimenti migratori in gran parte dovuti proprio  alla ricerca dell’acqua. Le sterminate periferie  delle megalopoli d’Africa, Asia e America Latina, le loro bidonville, baraccopoli, favelas -tutti luoghi inautentici dell’abitare -chiedono acqua in misura  crescente, ma prive come sono di reti fognarie (quasi due miliardi e mezzo di persone le sconoscono) contribuiscono a peggiorare la qualità delle acque stesse. Si calcola che entro il 2050 quasi tre miliardi di persone potrebbero trovarsi coinvolte in una crisi idrica planetaria.

Nelle zone desertiche piove sempre meno. Nelle zone temperate aumentano le piogge, ma in modo incongruo e devastante. Incendi, edilizia selvaggia, incuria hanno la loro parte in un dissesto che non ci dà né acqua, né acqua buona. E oltre la disattenzione ecologica, oltre il mancato rispetto della madre terra, delle sue acque come del suo suolo, sta la domanda crescente di acqua nell’ottica egoista di quello che bisognerebbe bollare come “terrorismo ambientale”.

L’agricoltura, le città, le industrie, le centrali energetiche hanno bisogno di acqua. Cresce a dismisura la sete, con l’aggiunta perversa che possono soddisfarla solo i ricchi, non i poveri; i poveri la patiscono, senza potere far valere il proprio diritto nativo. Valga l’esempio del Sud-Africa dove la minoranza dei ricchi allevatori sottrae il 70% delle risorse idriche alla comunità, lasciando assetate  14 milioni di persone.DellaRobbiaBereAssetati

Può sembrare strano, ma uno dei nodi della questione è far passare l’acqua da “merce “ a “bene comune. Nel primo caso, compra l’acqua chi può pagarla. Di più, anche chi la possiede può venderla o svenderla per il proprio privato tornaconto, mentre l’acqua deve essere considerata un bene di tutti, bene comune. Il diritto all’acqua va inoltre sancito come diritto alla vita, deve configurarsi come un principio culturale unificatore, come progetto politico capace di disegnare un modello sociale promozionalmente alternativo. L’acqua non è un “affare” da gestire con le leggi del mercato, è una necessità vitale dell’umanità, da trattare come tale.

Dunque occorre uno sforzo dei singoli governi e degli organismi internazionali non meno che dei singoli, uomini e donne, per promuovere  appunto una cultura d’altro segno. Qualche anno fa, celebrando la Giornata Mondiale dell’Acqua («Acque condivise, opportunità condivise»), il Segretario generale dell’ONU avvertiva: «È la nostra risorsa naturale più preziosa. Più che mai dobbiamo lavorare insieme per farne un uso sensato. Il nostro futuro collettivo dipende dal modo in cui gestiamo questa risorsa preziosa e limitata».

Il problema è politico, e non soltanto nella linea pacificamente propositiva del bene comune. Gli scenari della cosiddetta “idropolitica” sono allucinanti. La questione dell’acqua ha fatto già da alibi a regimi totalitari. I nomi  di alcune grandi dighe (Saddam, Atatürk, Nasser)  sono la spia di una retorica che nasconde, e neppure tanto, la pretesa egemonica su una regione. Ormai i conflitti oltre che per la domanda energetica (la guerra per il petrolio) si caratterizzano per il disegno di controllare e acquisire le risorse idriche mondiali, magari lasciando che la penuria d’acqua diventi ricatto o condizione per mantenere intatto un potere determinante. Si pensi ai conflitti dell’area medio-orientale, all’utilizzazione delle acque del lago di Tiberiade e del Giordano; si pensi al bacino dell’Eufrate, si pensi al Darfur come cuneo destabilizzante del Corno d’Africa… Le guerre dell’acqua sono già terribilmente in atto e probabilmente ne vivremo di ben più terribili.

Si dirà: che cosa c’entra tutto ciò con il «dar da bere agli assetati»? C’entra eccome! Siamo complici tutti – anche noi cristiani! – del disordine mondiale. Abbiamo abdicato alla qualità della vita come qualità dovuta a tutti e l’abbiamo ristretta a diritto di un’esigua minoranza. Le guerre, le molteplici guerre che dilaniano il mondo, non sono il tradimento del progetto evangelico di condivisione? Abbiamo lasciato che l’amore per noi stessi esaurisse ogni spazio d’amore verso gli altri, magari sentendoci benedetti e privilegiati, senza accorgerci d’aver trasformato in idolo il nostro Dio.

Le riflessioni che troverete in questo riquadro per tutto l’Anno Santo della Misericordia prendono spunto da: Cettina Militello, Le opere di misericordia, San Paolo 2012.


Le sette opere di Misericordia Spirituale:

  1. Consigliare i dubbiosi;
  2. Insegnare agli ignoranti;
  3. Ammonire i peccatori;
  4. Consolare gli afflitti;
  5. Perdonare le offese;
  6. Sopportare pazientemente le persone moleste;
  7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

Le sette opere di Misericordia Materiale:

  1. Dar da mangiare agli affamati;
  2. Dar da bere agli assetati;
  3. Vestire gli ignudi;
  4. Ospitare i pellegrini;
  5. Curare gli infermi;
  6. Visitare i carcerati;
  7. Seppellire i morti.

L’articolo è stato tratto dal numero di Dicembre 2015 del giornalino parrocchiale “In Cammino” scaricabile a questo link.

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