Particolare tratto da Maus di Art Spiegelman

101 anni di “memoria”, un tesoro di cui aver cura

Domenica 19 febbraio alla Celebrazione delle 10.00 abbiamo avuto la possibilità di celebrare un compleanno importante.

Il nostro assiduo parrocchiano, Sergio, ha compiuto 101 anni!

Il bambini del catechismo hanno voluto fagli gli auguri consegnandogli dei meravigliosi biglietti confezionati per l’occasione.

Le vicende vissute da Sergio sono tesoro da ascoltare: all’età di 22 anni, mentre era richiamato in guerra venne fatto prigioniero dai Tedeschi e ha passato 8 mesi in un campo (Lagher) di prigionia Tedesco.

Partito per la guerra a 20 anni rientrò a 23 anni con tanta storia negli occhi e nella mente anche ancora racconta.

Gli abbiamo chiesto di raccontare la sua storia nel 2019, il suo racconto è prezioso per conservare la Memoria.

Pubblichiamo qui di seguito nuovamente il racconto già pubblicato su “in Cammino” nel 2019.

Il 27 Gennaio 1945 l’Armata Rossa liberava il campo di Auschwitz

Da questa data simbolica scaturisce la risoluzione 60/7 dell’ONU che il 1 novembre 2005 ha stabilito che ogni anno il 27 di Gennaio si celebri la “giornata della memoria”.

La Seconda Guerra Mondiale ha portato con se conseguenze di lutto e dolore che la maggior parte di noi, nati nel dopoguerra, con difficoltà riescono ad immaginare nella loro vera dimensione. La Shoah, la “soluzione finale” ideata dal delirante potere Nazista, ne è un elemento centrale. Ma non possiamo dimenticare tante altre vicende di sofferenza legate alla fine della seconda guerra e ai fatti, tristi e laceranti, che hanno coinvolto il nostro paese e i nostri uomini chiamati in guerra, all’indomani dell’8 settembre 1943.

Con quella data si aprì un periodo di grande speranza per una pace desiderata ma di enorme incertezza nella ricostruzione dello stato sociale e di diritto.

È quindi importante continuare ad avere “memoria” degli eventi che hanno costellato quegli anni.

I testimoni oculari di quel periodo sono sempre meno; il necessario e doveroso impegno a non far scomparire la “memoria” di quei giorni, ci ha spinti a raccogliere la testimonianza di Sergio.

Un nostro parrocchiano. Un “uomo come tanti” che si trovò l’8 settembre 1943 lontano da casa, attore in uno scenario europeo che stava cambiando e dove i “singoli” come lui diventarono pedoni insignificanti di cambiamenti epocali.

Abbiamo incontrato Sergio un pomeriggio di Gennaio alla soglia del suo 97 compleanno. Una casa semplice e ordinatissima, il tavolo di cucina cosparso di fogli, testimonianza di una memoria ancora vivida come lo sguardo nei suoi occhi.

Ecco un breve resoconto delle nostro colloquio.

 

disegno di Giampiero Puliti

Buonasera Sergio e grazie per averci accolto per ascoltare la tua storia. Iniziamo dal principio. Quando sei nato? Dove?

Sono nato nel 1922, in Mugello eravamo una famiglia tranquilla e vivevamo bene di quello che avevamo. Mio babbo aveva un piccolo podere e una casa. Eravamo 7 fratelli 5 maschi e 2 femmine. Io sono il quinto.

 

Quando è stata per te la chiamata alle armi?

Fui chiamato alle armi nel Luglio 1942 ma fui fatto “rivedibile” e rimandato a casa. Nel settembre fui richiamato nuovamente, incorporato a un Battaglione di Fanteria e inviato a Messina. Da lì inviato via terra in territorio di guerra in Grecia prima in continente poi sull’isola di Zante dove giunsi nel mese di novembre.

I mesi sull’isola non furono facili, i rifornimenti non erano adeguati e dovevamo arrangiarci per vivere. Eravamo in territorio di guerra ma non partecipammo mai a veri a proprie azioni di guerra anche se abbiamo sentito spesso i rumori della battaglia in lontananza.

L’8 settembre inizia la storia della mia prigionia.

Avevamo sentito la battaglia lontana ed eravamo sempre riusciti a tenere sotto controllo i Tedeschi che erano diventati nostri nemici. Nell’incertezza della situazione il nostro Capitano andò a cercare informazioni e chiamatici in adunata ci chiese se volevamo continuare la battaglia o cedere le armi. Il 20 Settembre cedemmo le armi e diventammo prigionieri di guerra dei Tedeschi.

 

Come sei arrivato in Germania?

Fummo traferiti in nave ad Atene. Venimmo stipati in maniera impressionante sotto coperta e trasportati ad Atene. In quella stagione in Grecia era ancora molto caldo e stipati in quella maniera il trasferimento ad Atene fu in condizioni veramente difficili.

Da Atene col treno ci traferirono in Germania, un viaggio lunghissimo pigiati in vagoni merci. Il viaggio durò circa 20 giorni.

Arrivati in Germania ci radunarono in un grande campo (non ricordo dove fossimo) e lì nuovamente ci fu chiesto se volevamo aderire all’esercito Tedesco. Tutti rifiutammo. Nella stessa adunata c’erano prigionieri di tante nazionalità. Ricordo ancora di un soldato Francese che reagì con una vigorosa protesta alla richiesta di passare nell’esercito Tedesco. L’ufficiale Tedesco che comandava l’adunata estrasse la pistola e lo freddò sul colpo.

Fu poi deciso che saremmo stati traferiti al campo di lavoro di Meuselwitz (Un campo “satellite” di Buchenwald. Situato a circa 100 Km da esso era destinato a fornire forza lavoro – circa 1800 uomini – alla Hugo und Alfred Schneider AG (HASAG) un’azienda tedesca del settore metalmeccanico che ebbe un ruolo significativo nella produzione di armi durante la seconda guerra mondiale. NdR)

 

Come era la vita nel campo? Come venivate trattati?

Il mio tesserino di riconoscimento del campo di Meuselwitz è il numero 2.406 e riporta la data del 12 Ottobre 1943.

Eravamo in delle baracche di legno e c’era anche una piccola stufa – ma il freddo era comunque intenso –, c’erano dei letti a castello in legno, il materasso era praticamente inesistente e avevamo una cosa poco simile a una coperta per coprirci la notte. Lavoravamo in fabbrica con turni di 12 ore. Eravamo controllati in tutto, non si poteva tenere niente con noi, specialmente il cibo. Se si veniva trovati in possesso di qualcosa da mangiare per “punizione” non potevamo andare nei rifugi in caso di attacco aereo (e la fabbrica era presa spesso di mira dai bombardamenti aerei). Uno che conoscevo è morto per questo motivo… era in punizione e suonò l’allarme: non lo fecero scappare… rimase sotto le macerie.

Il cibo era poco e razionato. Alle 12 c’era una “specie di mensa” e ci davano un grosso ramaiolo di “zuppa” che era un liquido acquoso con dentro qualche pezzo di verdura. Il Lunedì ci davano un pezzo di pane grosso come una mano: doveva durare una settimana. Quando fui fatto prigioniero in Grecia pesavo 76 chili, dopo neanche 3 mesi ero diventato 44 chili.

 

Ci racconti qualche episodio? Cosa ti è rimasto impresso?

La notte la sorveglianza non era strettissima – anche perché se si fuggiva non c’era dove andare e fuori dal campo eravamo riconoscibilissimi – così la notte con cautela si poteva passare sotto la rete e uscire dal campo per cercare qualcosa da mangiare. Una notte ero con dei miei amici Mario, Dante e altri di cui non ricordo il nome. Mi chiesero di andare con loro a cercare il cibo. Io al momento di passare sotto la rete non me la sono sentita, come se una voce mi avesse detto “torna indietro Sergio, non andare”. Gli altri andarono a cercare cibo e trovarono da rubare qualche patata a un contadino lì vicino (la fame era tanta!). Il contadino li soprese e mentre scappavano sparò e uccise sul colpo Mario con una fucilata alle spalle. Dopodiché venne al campo e con le guardie passarono in rassegna tutti… Scoprirono i colpevoli guardando le scarpe. Chi aveva le scarpe con il fango fresco fu incolpato del furto. Un ragazzo nella mia camerata fu preso e portato via, prese tante botte. Non morì per le botte ma poi non stette più bene. Il corpo di Mario – che aveva la schiena aperta dalla fucilata – fu messo in mezzo al campo in modo che tutti potessero vederlo come se fosse una lezione… non so che ne hanno fatto del corpo di Mario. Spero che poi lo abbiano seppellito.

Il nostro non era un campo di sterminio ma ho visto tanti morire di fatica, di malattia e di fame. Certo, rispetto ai campi di sterminio chi aveva fisico resistente e un po’ di fortuna poteva sopravvivere.

I turni di lavoro erano di 12 ore ed erano estenuanti, e spesso mancavano le forze per continuare. Ma ad ogni segno di cedimento giungevano sempre gli stessi ordini impartiti in tedesco con le poche parole che avevamo imparato: “continua a lavorare non ti fermare!”. Non so davvero come ho fatto a resistere! Si pativa il freddo, si mangiava poco e si riposava male. Ricordo di una volta che stavo al tornio a passare dei pezzi che servivano per costruire armi – ho costruito anche i pezzi la per la “Panzerfaust” una particolare arma tedesca. Di solito non venivamo colti di sorpresa dagli attacchi aerei ma quella volta tra  l’allarme, il rombo degli aerei e l’esplosione delle bombe passarono pochi istanti. Fuggii verso una rampa di scale per uscire alta più di 15 metri. Esplose una bomba e mi ritrovai in fondo alla rampa. Lo spostamento d’aria mi aveva lanciato indietro, mi ritrovai pieno di polvere e calcinacci ma senza ferite e nessun osso rotto. Penso che in quel momento qualcuno da lassù mi abbia aiutato…

Venivamo utilizzati anche per scaricare le provviste destinate ai militari del campo. Mentre tre di noi scaricavano le provviste i militari dissero che era sparito un barattolo di marmellata. I tre ragazzi vennero presi, denudati e messi con la schiena verso l’alto distesi su un tavolo. Ci misero in fila e ci costrinsero a frustigarli con una cinghia dei pantaloni. Ovviamente noi lo facevamo con poca forza… allora i militari iniziarono loro a dare le cinghiate a lungo con tanta forza… davanti a tutti noi obbligati ad assistere… questi ragazzi non morirono ma anche loro si ripresero male dalle ferite subite.

 

Quanto è durata la tua permanenza al campo?

Circa un anno e 8 mesi. Improvvisamente tutti i tedeschi sparirono, e arrivarono gli americani, era il 15 Aprile 1945. Come prima cosa fummo spostati di circa 15 chilometri in un altro campo, e quella probabilmente fu una fortuna perché finimmo in territorio di competenza americana… altrimenti con tutta probabilità saremmo rimasti “oltre cortina” in territorio di competenza dell’Armata Rossa e sarebbe stato più difficile tornare a casa.

Eravamo comunque “prigionieri” anche con gli americani, dovevamo stare nel campo, nessuno ci obbligava a rimanere ma non ci dicevano come poter andare a casa. Allora decidemmo con altri di farci coraggio e con un barroccio con sopra le nostre poche cose si scappò dal campo americano. Penso che camminammo per più di 100 chilometri dormendo dove capitava e chiedendo ospitalità nelle fattorie tedesche (uno di noi era altoatesino e parlava bene il tedesco) fu veramente rischioso. Finalmente trovammo una stazione da cui passavano ancora treni. Sistemati i “bagagli” ci mettemmo sul tetto del treno in direzione sud.

Non ricordo dove passammo il confine, appena passati il confine ci “ripulirono” e ci indirizzarono al centro alloggio di Verona dove arrivai il 23 Luglio 1945. A Verona ci dettero qualche soldo e trovai la strada per arrivare a Firenze; a Firenze con un passaggio su un calesse sono tornato in Mugello.

 

A casa sapevano che eri vivo? Che eri prigioniero? Come è stato il ritorno a casa?

Sì, i Tedeschi i primi tempi ci permisero di scrivere a casa per dire che eravamo prigionieri. A casa sapevano che ero prigioniero ma non dove.

Arrivato vicino a casa non andai subito a casa. Mi fermai prima presso una famiglia che conoscevo e chiesi a un ragazzo di avvisare casa che stavo arrivando, non volevo mi vedessero in quelle condizioni senza prima essere avvisati, sarebbero rimasti troppo impressionati. Mi vennero incontro mio babbo e mio fratello… sai sono momenti… – e qui la voce si rompe – sono momenti che rimangano qui (e indica il petto)…

 

E poi come è andata la tua vita?

Sono partito per la guerra che avevo 20 anni e sono tornato a 23.

In Mugello non c’era lavoro ma qualcosa bisognava fare, mi davo da fare.

Conobbi mia moglie, mi sposai e nacque mio figlio, ma in Mugello non c’era lavoro, lavoravo in maniera saltuaria e non potevo assicurare un futuro alla mia famiglia.

Decisi allora di “partire”. Venni a Firenze con mia moglie e il figliolo piccino, in una camera in affitto e 200 lire in tasca. Iniziai piano piano a lavorare, poi feci un concorso ed ebbi la fortuna di essere assunto in Comune.

 

Il colloquio è continuato a lungo, quasi due ore di racconti. Un fiume in piena, un flusso costante di ricordi e storie che Sergio sente il bisogno (quasi fisico – lo si avverte fortemente) di consegnare a chi può ricordarle dopo di lui.

Ci salutiamo, Sergio ci ringrazia di averlo ascoltato.

Lo ringraziamo noi.

Per la sue parole colme di memoria che ci ricordano quanto è terribile la guerra e come l’uomo possa costringere i suoi simili a vivere in maniere così inumane.

Per le sue parole chiare e precise, mai piene di rancore ma di grande pietà per coloro che non ce l’hanno fatta: “nei primi mesi in tanti non hanno resistito alla durezza della prigionia, stranamente quelli che sembravano più robusti sono quelli che sono morti prima. Gli chiudevamo gli occhi e li portavano via. Chissà dove sono finiti… (i loro corpi ndr).”.

Sicuramente tutti loro sono scolpiti nella memoria di Sergio e adesso anche nella nostra memoria. Una memoria che ci comanda di ripetere ogni giorno, in ogni momento con ogni respiro della nostra vita: “mai più, mai più la guerra, mai più l’odio”.

Ricordiamocelo, conserviamo la memoria…


don Simone

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