Carcere di Firenze a Sollicciano

Visitare i carcerati

Prosegue il cammino di approfondimento sul tema della Misericordia oggetto dell’Anno Santo proclamato da papa Francesco.

Non mi è facile affrontare un argomento che richiederebbe ben altre competenze, e non solo perché visitare i carcerati è per i più impossibile, ma perché duro e complesso è il nodo del carcere. La cronaca passata e recente registra impietosa il numero dei suicidi, sempre in crescita rispetto a quelli registrati l’anno precedente. Per non parlare delle morti in carcere. Le storie dei pestag­gi, delle morti strane le conosciamo…

Papa Giovanni, mettendo in atto quest’opera di Misericordia, sciolse il gelo di “Regina Coeli” raccontando di un suo parente portato via dai gendarmi. Nell’immaginario personale qualcuno in carcere ce lo ritroviamo tutti, si tratti di un congiunto o di un vicino, più o meno prossimo; così come nell’immaginario culturale restano impressi i luoghi emblematici della detenzione: l’Ucciardone, ad esempio, o il Malaspina, il carcere minorile  – parlo di Palermo. Era giocoforza saperli contestuali alla città: il primo nella sua tetra fama, il secondo nell’eco sussurrata del doversi fare qualcosa per quei ragazzi; a evocarne l’utopia, la drammatica elegia del film “Mery per sempre” (e, amplificando l’inciso, non è casuale l’incidenza del tema: vedi “Il profeta” o “Cella 221“).

LogoGiubileoMisericordiaPercorrendo la circonvallazione di Palermo, più volte ho faticato a riconoscere il carcere nuovo di Pagliarelli. In lontananza mi chiedevo quale architetto lo avesse concepito, per rendermi conto poi che si trattava, appunto, di un carcere.

Lo confesso, non ho mai varcato la soglia di una prigione, né un luogo ad essa assimilabile – certo, mi fanno senso i monasteri di clausura, quando mi tocca dormire in zone ora dismesse, le cui camere senza vista e le cui finestre altissime e a doppie grate mi disegnano come prigione l’adeguarsi al decreto tridentino sulle moniali. Potrei dunque dire anch’io, con la giornalista che ne trattava qualche anno fa su Famiglia Cristiana, che al momento del Giudizio alla domanda dovrò rispondere di no: Cristo in carcere non l’ho visitato.

A mia discolpa, non è facile oltrepassare quella soglia, come ben sanno gli operatori esterni o i cappellani e le suore che pure hanno fatto proprio questo particolare ministero. Aggiungo che ho sempre guardato con simpatia la rete solidale di chi si impegna a rendere più umana la condizione dei reclusi. Ricordo colleghe fortemente impegnate in questo genere di apostolato; e, con altrettanta simpatia, un parroco della mia Palermo, religioso, che trasferito da un suo quartiere degradato nell’Urbe si ritrovò, prima di fatto e poi a pieno titolo, cappellano per forza di gravità a ragione dei suoi ex parrocchiani qui detenuti. Devo a queste frequentazioni quel minimo di informazione che, peraltro, trova largo riscontro.

In carcere ci va l’ultimo tra gli ultimi, non chi delinque alla grande. E ammesso che ci vada un delinquente blasonato, se ci resta vuol dire che non è davvero tale. Se ricco e potente, se ben relazionato, in cella ci starà assai poco, magari passando dalla clinica di comodo alla latitanza. Muoversi nel groviglio delle leggi non è cosa facile per chi vive ai margini. Al contrario, delinquere è un vanto per chi può impunemente violare la legge, uccidere persino o comunque fiancheggiare il malaffare o avvalersene. Ma queste sono cose risapute, anche se la peste culturale che ci devasta ci rende ogni giorno più insensibili e indifferenti. La responsabilità: che cos’è mai? Bravo chi la elude sempre e comunque.

Ebbene, chi nelle carceri ci sta è, pare, al 40% uno straniero, un extracomunitario ­prevalgono sugli altri quanti provengono da una zona di confine UE (il Maghreb, i Balcani). I detenuti in Italia sono circa 67.000 contro i 45.700 che le strutture potrebbero accogliere; le donne sono, rispetto agli uomini, in netta minoranza. Oltre il 40% di chi sta in carcere è in attesa di giudizio. Donde il dramma del sovraffollamento: disperazione, degrado, violazione di diritti umani (l’Italia è stata per l’appunto condannata dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo); cose tanto più odiose perché inferte a soggetti che al 40% verranno assolti o condannati a pene irrisorie.

Siamo inoltre passati, e con fatica, non solo da una concezione punitiva a una concezione redentiva della pena, ma anche al riconoscimento del rispetto dovuto al condannato: la privazione della libertà non può violarne la dignità personale. La legge del 1975 è precisa in tal senso, benché sia facile dimenticarsene, sia per la discrezionalità d’interpretarla, sia per ragioni altre.

Va anche detto che il carcere è per peso di gravità un luogo dove facilmente vittime e carnefici si scambiano le parti o dove s’incrementano unidirezionalmente la violenza o la perversione. Non vorrei essere esplicita più di tanto, ma è facile diventare “bestie” là dove si marcisce e basta. In un tragico gioco delle parti, si diventa o ci si scopre sadici, o comunque al limite dell’umano.

Va detto pure che, nella lunga storia dei delitti e delle pene, come Chiesa abbiamo anche noi la nostra parte di responsabilità e di connivenza. Certo, non è possibile scioglierla del tutto dalla contestualità culturale. Ma, occorre dirlo, siamo stati maestri nel distinguere il perdono, la pena e il debito dovuto alla pena, giungendo al paradosso di un perdono che non scioglie dal debito della pena e che viene ben certificato e tariffato anche nell’aldilà. E, tuttavia, le infinite risorse di un messaggio sempre “ridetto” dallo Spirito ci hanno anche resi attenti alla condizione di chi soffre la detenzione e chiede di essere accompagnato sia nel percorso di ravvedimento, sia nella difesa di quella dignità che la condanna non può elidere, se davvero vuole essere medicina e non vendetta.

Sullo sfondo stanno quei luoghi emblematici della Scrittura che annunciano ai prigionieri la liberazione ( cfr. Lc 4, 18; ls 61, 1) o che invitano a ricordarsi dei carcerati come se si fosse loro compagni di prigionia (cfr. 13,3), senza dimenticare il Sal 142,8 («strappa dal carcere la mia vita»); e, referenti fondamentali, punto stesso di partenza, parole di Gesù: «ero carcerato e siete venuti a visitarmi» (Mt 25,36).

È chiaro che la liberazione si parla e lo sciogliersi della prigionia non hanno esattamente o solamente il referente del carcere. La liberazione annunciata da Gesù va oltre la o le catene. Investe la conversione, l’appello a ritornare a Dio e a operare il bene, a discernere e ad accogliere i segni del Regno.GhirlandaioCarcerati

Questa lettura, che peraltro svela altre prigionie e altre detenzioni che ciascuno infligge a se stesso o agli altri, certamente ci allerta circa altra prossimità, altro farsi solidale e altro impegno per sconfiggere tutto ciò che rende schiava la persona umana. Resta tuttavia l’attenzione condizione di chi in carcere c’è nel senso stretto del termine e verso il quale occorre mettere in atto una dinamica attiva di prossimità, durante la carcerazione e dopo.

Oltre la sinergia specifica di operatori istituzionali e non (questi ultimi hanno finalmente oltrepassato la pregiudiziale ideologica per un progetto comune), c’è dunque il dovere nostro di supportare chi soffre il carcere nella sua persona e nel suo circolo relazionale. C’è il dovere nostro, di cittadini e credenti, volto a contrastare quelle politiche che penalizzano situazioni sociali che andrebbero diversamente gestite. La detenzione non risolve, anzi acuisce determinate piaghe, e farvi ricorso evocando lo spettro della sicurezza è ipocrisia. Non è lontano dagli occhi che i problemi non si sciolgano potenziando le strutture di detenzione ­ magari, come pure è avvenuto, con la corsia speciale dei “grandi eventi”. Tanto più che nessun problema sociale è imputabile al singolo individuo, ma piuttosto a noi tutti.

In particolare, poi, credo debba pensarsi diversamente la detenzione. Non è utopia un percorso di correzione alternativo, semmai è una necessità. Non è condannando all’ozio e all’inattività che si possono risanare le persone, ma dando un senso alle loro giornate, alla loro vita, così che possano e sappiano poi interagire positivamente, pagato il loro debito. Che vale il carcere se poi si torna a compiere le stesse azioni, se si torna a vivere la vita di prima? Che vantaggio ne trae la comunità? Ma ancor più a monte, credo che occorra interrogarsi sulle cause, sulle ragioni che portano a delinquere, e darsi da fare per rimuoverle. Sarà banale, ma continuo a pensare che una diversa politica del lavoro o una diversa politica dell’educazione, un diverso progetto socio-politico-culturale sarebbero un grande antidoto. Il nonsenso e la noia, l’imperativo del tutto e subito, dello “sballo”, l’elogio/ostentazione di ricchezze acquisite non si sa come, la perversione del potere in tutte le sue forme: credo che il combattere e sconfiggere queste cose e il mostrarle come non-valori siano il percorso obbligato, il rimedio più concreto alla devianza, il dovere nostro impellente come credenti e come cittadini.

Le riflessioni che troverete in questo riquadro per tutto l’Anno Santo della Misericordia prendono spunto da: Cettina Militello, Le opere di misericordia, San Paolo 2012.


Le sette opere di Misericordia Spirituale:

  1. Consigliare i dubbiosi;
  2. Insegnare agli ignoranti;
  3. Ammonire i peccatori;
  4. Consolare gli afflitti;
  5. Perdonare le offese;
  6. Sopportare pazientemente le persone moleste;
  7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

Le sette opere di Misericordia Materiale:

  1. Dar da mangiare agli affamati;
  2. Dar da bere agli assetati;
  3. Vestire gli ignudi;
  4. Ospitare i pellegrini;
  5. Curare gli infermi;
  6. Visitare i carcerati;
  7. Seppellire i morti.

L’articolo è stato tratto dal numero di Aprile 2016 del giornalino parrocchiale “In Cammino” scaricabile a questo link.

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