Salvador de Bahia

Un’esperienza missionaria

Domenica 4 ottobre viene distribuito il numero del Giornalino Parrocchiale “In Cammino” (scaricabile a questo link: Ottobre 2015 Anno XXIX Numero 8).

In questo numero:

  • Un’esperienza missionaria
  • Misericordia, cos’è …
  • Un saluto da don Gabriel
  • Facciamo silenzio …
  • … e il restauro del crocifisso ?

Di seguito l’articolo di apertura:

Quest’anno ricorrono 50 anni della presenza dei Sacerdoti di Firenze in Brasile a Salvador Bahia.
Accogliamo la testimonianza di Lorenzo Lisci che dalla nostra comunità 27 anni fa è partito per Salvador.

I primi ricordi che ho del Brasile sono legati alle “mitiche” Lettere dal Brasile, attraverso le quali, a partire dal finire degli anni 70, don Renzo Rossi, affiancato successivamente come collaboratore da don Sergio Merlini e da tanti altri aveva instaurato un bellissimo e vivace dialogo con gli amici di oltremare e che attraverso questa corrispondenza coltivavano la consolidata amicizia con don Renzo e la estendevano ai suoi parrocchiani e a quanti lo avvicinavano. Di questi scritti, ricordo, mi colpivano soprattutto le allusioni, criptate per via della censura militare, ai rapporti che don Renzo aveva avuto per molti anni con i prigionieri politici che subivano ogni forma di tortura mentale e fisica da parte dei “manovali” della dittatura. Proprio l’idea delle torture ha avuto grande impatto sulla mia sensibilità e nella mia mente di adolescente mi faceva immaginare il Brasile come un luogo di “pianto e stridore di denti”; non è stato certo questo che ho incontrato nel mio primo contatto con la Bahia e con Salvador quando, già sacerdote, vice parroco della “nostra” Comunità di Maria Ausiliatrice, sono stato invitato a visitare la comunità fiorentina (sacerdoti e laici) della parrocchia di Nossa Senhora de Guadalupe, nella diocesi metropolitana di Salvador di Bahia; sono stato così ben impressionato da questo incontro al punto da fare a don Renzo una mezza promessa e cioè che, se il vescovo Piovanelli me lo avesse chiesto, avrei passato volentieri un periodo del mio ministero sacerdotale , in Brasile.
La chiamata del vescovo è arrivata dopo circa un anno da quella prima visita e si è concretizzata con il corso CEIAL che ho fatto a Verona per imparare non solo un po’ di lingua (il portoghese) ma anche per avvicinarmi alla cultura e alla pastorale brasiliana. Nel gennaio del 1988 sono partito come missionario “fidei donum” (*) Al giorno d’oggi siamo abituati a vedere, nelle nostre comunità italiane, sacerdoti dell’ Europa dell’est o africani o di altre parti del mondo ma quando don Rossi è partito, nel 1965 c’era un altro clima e non era consueto (se non si era missionari “per vocazione” legati cioè a Ordini religiosi dichiaratamente missionari) prestare servizio in una diocesi diversa da quella dell’ordinazione; è stato un passo importante per la Chiesa riconoscere la missionarietà come caratteristica fondante e che deve coinvolgere l’intera Chiesa locale e non solo i “missionari” tout cour. Come lo stesso don Renzo amava ripetere , quando è partito per il Brasile per collaborare con le comunità locali situate nel territorio della periferia di Salvador, cinquanta anni or sono, non aveva un mandato vero e proprio dalla diocesi di Firenze e se di mandato si deve parlare, per parafrasare lo stesso Renzo…, lui era stato “mandato” a quel paese…, in realtà il Vescovo di allora, Mons. Ermenegildo Florit, aveva acconsentito al suo desiderio di partire missionario perché prete “scomodo” come si diceva a quei bei tempi in cui la profezia soffiava prepotente sul territorio fiorentino e dintorni nelle persone di tanti consacrati e laici quali don Milani, La Pira, Padre Ernesto Balducci solo per fare alcuni nomi. Rispetto a quando è iniziata la missione fiorentina, quando mi sono avvicinato a questa esperienza missionaria i tempi erano cambiati all’interno della Chiesa ed ho avuto la fortuna di avere tutto l’appoggio possibile non solo dalla Comunità di origine (ricordo con tanto piacere la visita di don Marinetto a Salvador, insieme ai miei genitori e a quelli di Rodolfo, mio compagno nell’avventura missionaria) ma anche della Chiesa Locale.

Arrivato in Brasile ho incontrato una realtà, quella di Salvador, ben organizzata pastoralmente, in piccole comunità (allora si diceva “di base”) molto vivaci rispetto a tante nostre comunità fiorentine ma che già risentivano di una forma di stanchezza e di “adagiamento” che era subentrato nel paese con l’avvento della democrazia dopo oltre venti anni di dittatura militare; di fatto il terrore instaurato nei confronti dei movimenti politici oppositori e delle Comunità di base , anziché spegnere e soffocare le ansie di liberazione umana e salvifica aveva incrementato l’impegno politico, sociale e religioso, soprattutto di tanti giovani, dichiaratamente credenti o con una visione laica del mondo. Per parlare del gruppo “fiorentino” sia da parte dei sacerdoti come dei laici si viveva un momento di riassestamento e di cambi (anche generazionali) che, in parte, anche io e Rodolfo avremmo dovuto garantire .

Tra le tante novità e stimoli che ho trovato e che sicuramente mi hanno fatto maturare non posso non ricordare l’incontro con la teologia della liberazione , tanto temuta e osteggiata da una parte rilevante delle gerarchie ecclesiastiche ma vera linfa per tutti i credenti e gli uomini e donne di buona volontà. Personalmente l’ho vissuta non solo come una teologia di liberazione da tutto ciò che ostacola l’avvento del regno di Dio ma, per alcuni aspetti come una “liberazione da una teologia scritta a tavolino“ e annunciata e vissuta dal basso, a partire dalle esperienze più essenziali della vita. Questa “essenzialità” non va intesa come una forma di riduzione della Buona Notizia all’esigenza di dare pane e libertà a tutti ma sicuramente è un punto di partenza che non possiamo trascurare se vogliamo coinvolgere nell’Annuncio del Vangelo i poveri e da loro essere trasformati come anche Papa Francesco richiama di frequente.

Negli anni di formazione del Seminario avevo sempre pensato ad una Chiesa accogliente nei confronti di tutti, molto compatta e ben delineata al suo interno, seppure accogliente verso i cosiddetti lontani. L’esperienza del Brasile, dei poveri, del loro sorriso, dell’abbraccio, del rispetto per i consacrati ma anche l’esigenza di averli sempre dalla loro parte ha fatto maturare in me qualcosa, che anche nella esperienza fiorentina di Maria Ausiliatrice, avevo iniziato a coltivare, e cioè la consapevolezza che pur all’interno della stessa Chiesa (che non può che essere una), si devono fare delle scelte e che, scegliere il coinvolgimento con i poveri, sull’esempio di Gesù, presuppone anche contestare un modello di Chiesa (che, badate bene, c’è anche in Brasile!) che invece è troppo spesso alleata con chi ha potere o quantomeno connivente, perché da questi trae sicurezza economica e garanzia di sussistenza. Purtroppo questo processo, in me, non ha avuto una completezza e un compimento in terra brasiliana perché insieme a queste scoperte e all’affetto grande dei parrocchiani, stavano maturando, in me, delle scelte di vita che hanno avuto, in un certo senso il sopravvento su quanto mi accadeva intorno. Sono però consapevole che questa sensibilità e attenzione ai poveri che avrei potuto vivere come sacerdote mi ha impegnato e mi impegna nella mia vita attuale, di laico sposato, in Italia. Non posso ignorare il dolore e i momenti di sbandamento che, sicuramente, in quel tempo tanti hanno vissuto e a cui chiedo sinceramente perdono, ma devo anche riconoscere che il Brasile mi ha fatto confrontare con una parte di me che non poteva essere soffocata, nella consapevolezza che solo partendo da noi stessi possiamo trovare Dio e in lui il servizio ai fratelli.

Vorrei concludere questa mia riflessione con un’ultima considerazione e un pensiero sul momento storico che stiamo attraversando: la Chiesa missionaria, dopo il Concilio Vaticano II ha iniziato faticosamente una riflessione sugli strumenti che avrebbero dovuto essere usati per cambiare l’impostazione dell’annuncio del regno in terra di missione. Si cominciava pian piano a mettere in discussione i metodi, le forme e talvolta la stessa sostanza di come era stata concepita la Missione. Salvando alcuni esempi (quali le “Reduciones” dei Gesuiti e altri) la Missione era stata fatta più con la spada (al seguito dei conquistadores spagnoli e portoghesi in America centrale e del Sud), che con la Parola ignorando e molto più spesso distruggendo deliberatamente le culture indigene, nelle quali, non si sarebbero dovuti ignorare quei germi seminati dalla Grazia di Dio, che seppure ancora distanti dalla piena rivelazione del Cristo ne erano sicuramente strumenti premonitori. Proprio questo sforzo della Chiesa di rivedere tanti suoi atteggiamenti nei confronti dell’annuncio missionario dovrebbe guidarci in questo momento storico in cui , erroneamente a mio parere, molti credenti vivono nella paura e nel timore di soccombere di fronte a nuove sfide culturali e umane, non solo migratorie. Seppure con strumenti adeguati e diversificati il Signore ci chiede di non aver paura, di non erigere muri, di guardare al diverso non con timore ma con la capacità di saper trovare in lui quegli stessi germi della Grazia che erroneamente, per centinaia di anni sono stati disprezzati e umiliati. Chi umilia l’uomo umilia Dio perché come ricorda Sant’Ireneo “La Gloria di Dio è l’uomo vivente”.

Lorenzo Lisci

(*) “Fidei donum” sono le prime due parole che danno anche il nome alla Enciclica promulgata da papa Pio XII nel 1957. Da tale data sono stati così chiamati i sacerdoti che prestano servizio per un periodo più o meno lungo in terra di missione.

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