Santa Rebecca ar Rayyas da Himláya fotografia

Santa Rafqa ar-Rayyās

monaca (1832-1914)

23 Marzo

Rafqa (Rebecca), il giglio di Himlàya, la cieca mistica del Libano, era la figlia unica di Mourad Saber Shabaq ar-Rayyās e Rafqa Gemajel. Nata a Himlàya, piccolo villaggio vicino a Bickfaya, il 29 giugno 1832, al battesimo le fù dato il nome di Boutroussyeh (Petronilla) in memoria di san Pietro, festeggiato nel giorno in cui lei veniva al mondo. Aveva solo sei anni quando rimase orfana della mamma; a undici venne mandata a fare la domestica e continuò questo lavoro fino ai quindici. A ventuno si fece suora nella Congregazione di Maria Immacolata Concezione, presso Bickfaya, e cambiò il proprio nome con quello di Anissa (Agnese). Nel 1856 emettendo i voti religiosi consacrava definitivamente la propria vita a Dio.

Nel 1871 la congregazione si fondeva con quella del Sacro Cuore di Gesù. Alle suore veniva lasciata la possibilità di accettare la nuova situazione, di optare per un’altra congregazione o anche di venire sciolte dai voti e ritornare alla vita secolare. A suor Anissa, incerta sul da farsi, venne in soccorso sant’Antonio abate, che le apparve più volte indicandole come sua destinazione l’Ordine di sant’Antonio dei maroniti (Ordine Baladiya) del Libano. Il 12 luglio 1871 Anissa vi entrava come novizia con il nuovo nome di Rafqa (Rebecca).

Religiosamente motivata e dalla spiritualità robusta, suor Rebecca s’era incamminata da subito sulla via della santità, alla sequela di Gesù. E per poterlo seguire fino in fondo, nella festa della Madonna del rosario nel 1885, chiese a Dio la grazia di partecipare alle sofferenze di Cristo. Fu presa in parola e da allora la sua salute cominciò a peggiorare, a causa, sembra, di una forma tubercolare che le attaccherà gli occhi e le ossa, riducendola progressivamente alla cecità e su una carrozzella. Passò il resto del tempo a pregare, a lavorare nel convento impegnandosi al massimo delle sue possibilità, compatibilmente con le proprie limitazioni fisiche.

Nel 1897 un gruppo di suore dal convento di San Simeone si spostava nel nuovo convento di San Giuseppe Ad-Daher. Madre Ursula, che ne sarebbe diventata la superiora, ottenne di condurre con sé suor Rebecca. La suora, ormai cieca, passò gli ultimi diciassette anni di vita in questo convento che fu luogo delle sue più grandi sofferenze ma anche delle sue più grandi gioie. Rebecca era in perfetta sintonia con madre Ursula. Il suo esempio e il suo appoggio furono indispensabili nell’avviare il nuovo convento. Soprattutto le novizie furono impressionate dalla forte spiritualità della suora cieca, una spiritualità incentrata sulla preghiera, sull’umiltà e sulla carità. Rebecca ha sofferto per diciassette anni dolori atroci e continui, notte e giorno, ma le consorelle non l’hanno mai sentita lamentarsi o compiangersi. Spesso le tranquillizzava dicendo che ringraziava Dio per le sue sofferenze

«perché so che la malattia è per il bene della mia anima e per la sua gloria»

e che

«la malattia accettata con pazienza e riconoscenza purifica l’anima come il fuoco purifica l’oro».

Era sempre tranquilla, sorridente, sopportava anche la più grande sofferenza con pazienza, sperando nel Signore che promise: «Con la vostra perseveranza, salverete le vostre anime».

Per la sua pazienza può essere paragonata ai grandi santi. Di suor Rebecca conserviamo una preziosa autobiografia, dettata da lei stessa a madre Ursula, amica e confidente, che gliel’aveva espressamente richiesta. Ormai prossima alla morte, la suora cieca chiese a Dio di ridarle la vista per un’ora soltanto, così da poter vedere di nuovo il volto di madre Ursula. Ecco che cosa avvenne. Un giorno alla superiora parve che Rebecca soffrisse più del solito e, mossa a pietà, le chiese: «Hai mai rimpianto la perdita della tua vista? Non desideri qualche volta di poter vedere il nuovo convento con le bellezze naturali che lo circondano, le montagne, le rocce, le foreste?».

Suor Rebecca rispose semplicemente: «Mi piacerebbe riacquistare la vista solo per un’ora, madre, solo per poterti vedere».

«Solo per un’ora? E poi saresti contenta di tornare nel tuo mondo di oscurità?».

«Sì», replicò la cieca. Madre Ursula scosse la testa e fece per uscire dalla cella, quando udì suor Rebecca esclamare: «Madre, posso vederti!». La superiora si girò immediatamente e vide lo splendore sulla faccia di Rebecca. Quello fu sufficiente per assicurarla che quella sua figlia non la stava prendendo in giro. Ma volle essere certa che il fenomeno fosse reale e non uno scherzo della mente. Cercando di placare le sue emozioni, tornò ai piedi del letto. «Se è come tu dici – esclamò – dimmi cosa c’è sul comodino». Rebecca girò la testa e rispose: «La Bibbia e le Vite dei santi». Era vero.

Rebecca moriva il 23 marzo 1914. Quattro giorni dopo la morte, sulla sua tomba cominciarono ad avvenire guarigioni miracolose. Tra le guarite la stessa madre Ursula, affetta da una brutta forma di tracheite che minacciava di soffocarla. Elizabeth En-Nakhel da Tourza, fu guarita da un cancro all’utero, nel 1938, e fu questo il miracolo che consentì la beatificazione di Rebecca, avvenuta il 17 novembre 1985, da parte di papa Giovanni Paolo II; lo stesso pontefice l’ha proclamata santa nell’anno del Giubileo del 2000.


Tratto da: P. Lazzarin, Il libro dei Santi, Messaggero di S. Antonio editrice, 2013

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