Processo alle Streghe di Cavalese

Ammonire i peccatori. Consigliare gli afflitti

Prosegue il cammino di approfondimento sul tema della Misericordia oggetto dell’Anno Santo proclamato da papa Francesco.

Mi chiedo spesso – è tema per me ricorrente – se l’assenza dei roghi ai nostri giorni sia soltanto un dettaglio culturale. Il rogo non è “politicamente corretto”, così come non lo è la lapidazione. E tuttavia resta una gran voglia di appiccare il fuoco (come di seppellire sotto le pietre), solo che proprio non si può: ricusiamo ogni barbara forma di violenza – ci è stato autorevolmente ricordato.

caravaggiosanpaoloLo dico perché nell’entroterra dell’”ammonire i peccatori” si vede affiorare, tumultuosamente direi, una serie ininterrotta di condanne; una schiera di uomini e di donne a volte, più che peccatori – e sul concetto bisogna proprio ritornarci -, rei semplice­mente di pensarla diversamente. Costoro sono stati magari ammoniti, ma di una ammonizione formale, interlocutoria, pesante, che alla fine quasi di buon grado li ha consegnati al braccio secolare e dunque ai roghi, alle forche, alla mannaia, in quel perverso – sadico – gioco di immaginazione da cui noi cristiani stessi non siamo rimasti estranei. E poiché da sempre mi sento borderline – non mi rassegno, e seguito a sognare una Chiesa “conciliare” -, oggi come ieri mi pare quasi di vederle le scintille e le fiamme, magari poi svegliandomi all’improvviso e prendendo atto – lo si voglia o no – che certo Medioevo è senza ritorno…

Il peccato d’opinione – meglio: la divergenza d’opinione – è nodo antico anche nella Chiesa. Non so quando e come abbiamo voluto e operato l’omologazione. E non mi riferisco al sacrosanto dovere di riconoscersi in un “segno”, ma, piuttosto, all’impossibilità quasi d’interpretarlo e di tradurlo nelle forme corrispondenti alla propria identità carismatica e socialmente (culturalmente) ecclesiale.

Ammonire è diventato un chiodo fisso. Ma non di ammonimento si tratta, quanto piuttosto di diktat neghittoso, duro, intransigente, che spesso non raggiunge l’interlocutore, ma ne esalta le difese, suscitando barriere insormontabili, chiudendo la possibilità d’aprire una qualsivoglia breccia o qualsivoglia opportunità dialogica: l’ammonimento che è insomma minaccia/provocazione, spesso già in partenza condanna, lasciando cadere la sua ragion d’essere fondativa; quella che per noi cristiani è inscritta nella mediazione salvifica della comunità e di quanti ne fanno parte, ossia la narrazione, la memoria della Misericordia.

In altre parole, ammonire dovrebbe essere evocare, richiamare, rendere presente, nell’immediatezza della propria congiuntura vitale, il disegno misericordioso di Dio, il suo farsi prossimo alla creatura. Dovrebbe suggerire, a chi vede oscurarsi la comprensione di sé, del suo rapporto con gli altri, del suo essere Chiesa, il percorso certo che di nuovo lo restituisca a se stesso, agli altri, alla comunità cui appartiene. E se c’è un ministero dell’ammonire, personale e comunitario, esso non può esercitarsi se non nella direzione del supportare questa memoria, questa presa di coscienza. Ammonire è richiamare il dovere proprio a ciascuno di fedeltà al disegno di Dio, disegno solidale, amorevole, esigente, prossimo, radicato nella cifra delLogoGiubileoMisericordia perdono prima e più che della condanna.

Due frasi evangeliche mi hanno sempre colpita – e non ne faccio tanto questione di correttezza esegetica, quanto di seduzione affettiva: le parole di Gesù alla peccatrice – le sono perdonati i suoi molti peccati per­ché molto ha amato (cfr. Le 7,47); le parole all’adultera – neppure Gesù la condanna (cfr. Gv 8, 11). Ebbene, c’è in queste come in altre parole, in questi dialoghi come nei tanti altri veicolati nella Scrittura, l’evidente manifesto della prossimità di un Dio che ripropone la fedeltà al suo disegno, non attraverso la minaccia o la condanna, ma attraverso l’evidente suo porsi su un piano di liberalità accondiscendente.

Ma può la logica dell’essere umano e della Chiesa, raccolta di uomini e donne convocati dalla Parola e dallo Spirito, tendere la logica di Dio? Non piuttosto è il paradigma della condiscendente partecipazione al nostro limite che deve informare l’ammonimento? Possiamo proporre ammonire come opera di Misericordia Spirituale allontanandoci da questo paradigma? In altre parole, può la Chiesa essere matringna e non madre? Possono i cristiani giudici gli uni degli altri, assumere come chiave interpretativa della fede e della prassi la loro personale comprensione della fede e della prassi? Non occorrerebbe – opera di Misericordia nativa e originaria – che tutti facessimo un passo indietro, così da far veramente emergere ciò che conta, ciò che unisce, ciò che ci costituisce, anziché innalzare l’un contro l’altro la propria percezione del messaggio, ideologizzandola e assolutizzandola senza alcun pudore?

Tornerà la Chiesa a narrare la Misericordia? Torneremo noi cristiani a chinarci operosamente gli uni sugli altri, accettando la sfida delle diversità come dono e non come peccato? Torneremo mai a capire che peccato è proprio il pervicace sostituirsi a un Dio venuto a salvarci prima e più che a giudicarci? No, non è l’ateismo scientista che mi disturba, ma l’ateismo pratico e ideologico di quanti si sostituiscono a Dio, lo interpretano con tale sicurezza da renderlo superfluo. Gli si sono sostituiti e tanto basta. Più e più volte ho ripetuto che il massimo della sacralizzazione, in verità, è assunzione mascherata della massima secolarizzazione.

È chiaro che se non c’è più spazio per l’ammonire nella sua valenza memoriale e confessante, non c’è più spazio neanche per il consolare. Le due opere di carità sono strettamente congiunte: consolare, confortare, ossia mettersi insieme per dare forza; dare conto, realizzare la costitutiva chiamata all’interscambio, all’interrelazione, al dialogo, all’incontro; consolare, confortare, come rafforzarsi mutuamente l’uno nell’altro, l’uno nel tutto, e non per svanire in un’omogeneità indifferente e indifferenziata, ma al contrario per trarre dagli altri la capacità/forza di riconoscersi nel proprio dono, costruttivo, indispensabilmente costruttivo, per l’armonia del tutto.

Consolare, confortare è traduzione pratica delle figure storiche della Misericordia. È riproposizione efficace del farsi prossimo di Dio, del suo sanare ogni limite, non eludendolo, ma piuttosto assumendolo. Consolare è far proprie le ragioni dell’indigente, quale che sia la sua indigenza. Fare proprie le ragioni e la pena disperata del peccatore, quale che sia il suo peccato. Confortare è poter contare sull’altro, sempre e comunque nella parabola della vita, nelle sue forzature e lacerazioni, nello scacco che prima o poi ci mette alle corde.

Mi ha sempre colpito che nella colorata e spumeggiante elencazione paolina dei carismi venga incluso sia l’esortare-consojohn-bridges-christ-healing-the-mother-of-simon-peterlare che il compassionare (cfr. Rm 12,8). Il che ci dice, indipendentemente  dalla loro valenza epifanica, ossia del loro manifestare la sovrabbondante potenza di Dio, che non è indifferente, ecclesiologicamente parlando, fare affidamento all’uno e all’altro dono. Tanto più che l’esortare e consolare (ossia l’ammonire nella sua dimensione propositiva) e, analogamente, il compassionare­ esercitare Misericordia, entrambi collocabili nella sfera variegata della parola, mai sono venuti meno nella comunità ecclesiale. Come avremmo superato l’insidia del tempo se, consapevoli o meno, non fossimo stati consolati o ammoniti? Se non ci fosse stato qualcuno/a che, avendone ricevuto il carisma, non lo avesse poi esercitato? E si badi bene: si tratta di carismi umili, poco appariscenti, eppure così necessari al nostro vivere.

Certo, tali carismi possono assumere forme potenti e intriganti. Si pensi alle “sante vive”, ossia a quelle donne al cui discerni­mento anche politico ci si affidava nelle corti rinascimentali. Si pensi alla valenza nascosta dell’accompagnare il nascere, e soprattutto il morire – penso all’intreccio inquietante dell’Accabadora di Michela Murgia. Ebbene, consolare e ammonire, autorevoli o umili che siano, diventano opere di Misericordia forse proprio in quell’eclisse dello Spirito, malgrado tutto mai davvero tale, affidate alla traduzione compiuta del proprio dover essere cristiano più che alla gratuità del dono come tale.

Ovviamente sta a noi riconoscerli nella loro radice carismatica, condizione e appello alla comune costituzione cristiana, che da tutti esige di praticarli nell’ordinarietà battesimale, ma proprio per questo chiede il correttivo di restituirli alla Misericordia come nome proprio di Dio e come orizzonte obbligato del vivere e tradurre la nostra fede in lui come “il misericordioso”.

Le riflessioni che troverete in questo riquadro per tutto l’Anno Santo della Misericordia prendono spunto da: Cettina Militello, Le opere di misericordia, San Paolo 2012.


Le sette opere di Misericordia Spirituale:

  1. Consigliare i dubbiosi;
  2. Insegnare agli ignoranti;
  3. Ammonire i peccatori;
  4. Consolare gli afflitti;
  5. Perdonare le offese;
  6. Sopportare pazientemente le persone moleste;
  7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

Le sette opere di Misericordia Materiale:

  1. Dar da mangiare agli affamati;
  2. Dar da bere agli assetati;
  3. Vestire gli ignudi;
  4. Ospitare i pellegrini;
  5. Curare gli infermi;
  6. Visitare i carcerati;
  7. Seppellire i morti.

L’articolo è stato tratto dal numero di Ottobre 2016 del giornalino parrocchiale “In Cammino” scaricabile a questo link.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *